Machismo e mediazione: due facce di medaglie diverse

“Machismo”, quell’insieme di atteggiamenti, qualità e modi che concordano con l’assioma <maschio = forte e aggressivo>.

Nell’esperienza quotidiana il machismo si può manifestare con atteggiamenti di ostentata virilità, o nella cura eccessiva della propria prestanza fisica, in modi prepotenti, fino ad aggressivi, farciti di battute maschiliste, senza dimenticare i tipici atteggiamenti di bossian-leghista memoria di chi ce l’ha più duro!

Applicato all’ambiente lavorativo medio l’atteggiamento machista assume sfaccettature leggermente diverse, a volte poco aggressive o bellicose esteriormente, ma che espresse in modi pacati e bonari e brillanti, trasudano ugualmente di orgoglio mascolino, e desiderio di supremazia e potere.

Sembrerebbe, ma non sto parlando solo di uomini o di bruti! …ma di machismo, che si addice perfettamente anche a soggetti femmina,

a soggetti di medio alta formazione o estrazione sociale, e a soggetti apparentemente scevri da ogni inclinazione machista: la coscienza che far emergere atteggiamenti machisti non sarebbe ben accetto, fa sì che questi vengano repressi e nascosti nella maggior parte del tempo e delle occasioni.

Capita ogni giorno nel rapporto con il cliente che sorgano contrasti, emergano contestazioni, una lamentela, o semplicemente un atteggiamento del cliente più scortese o aggressivo del solito.

Il macho, ovviamente, ce l’ha più duro e “il cliente NON ha sempre ragione”

…quindi va preso di petto o negando con decisione, o ascoltandone distrattamente le motivazioni, ed opponendosi per piegarne la volontà e le richieste; per il macho la clausola contrattuale è un alleato potente, messo in mezzo come scudo a difesa della propria supremazia, ancor prima di qualsiasi tentativo di ascolto, condivisione, conciliazione e rapporto.

Inevitabilmente, quei momenti di carica o forte tensione emotiva (come ad esempio durante una discussione in ufficio con un collega, oppure durante una telefonata animata con un cliente) possono modificare la capacità di controllo, così che il macho trapeli, dando evidente (e fastidiosa, n.d.r.) mostra di sé.

Nulla da dire, in molti casi la questione viene risolta in breve (visto che non c’è possibilità di contradditorio), e spesso anche con successo, motivo di orgoglio del macho e rinforzo positivo della sua strategia. Il match è vinto, solleviamo la medaglia della vittoria!

Il macho vince la singola discussione, ma perde nel rapporto con l’antagonista; vince il contrasto e apparentemente batte l’avversario, ma non costruisce quei legami necessari che possono essere creati e rinforzati anche nel contrasto.

L’alternativa al macho c’è! La chiamo mediazione: instaurare rapporti e punti di contatto e di rinforzo, modalità a mio parere più costruttiva e appagante, e di successo.

Un’azienda infatti non vive superando scontri singoli, ma creando ed investendo in una strategia basata su una visione a lungo termine, deve saper organizzare e costruire passo per passo una duratura rete di rapporti, di fiducia e supporto reciproco, che diano sostegno alla sua capacità e immagine.

Anche in “modalità mediazione” il rapporto tra me e il cliente si struttura in un equilibrio nel quale io e lui siamo alla pari, vogliamo entrambi qualcosa, e dobbiamo trovare un punto d’incontro per essere soddisfatti entrambi. Anche per me “il cliente non ha sempre ragione”, ma in modo diverso rispetto al macho.

In questo senso, la “mediazione” di cui parlo necessita di alcuni modalità operative di base:

  • Ascolto

Ascoltare le necessità del cliente mi è utile. Perché alla fine io devo vendere, e devo sapere ciò che gli serve, ciò che desidera, come lo desidera.

Potrei accorgermi che è disposto a pagare di più anche solo per essere ascoltato 🙂 ; potrei scoprire che è disposto a cedere su certi aspetti, mentre non transige su altri (che io magari ritenevo erroneamente di scarso interesse o trascurabili); potrei scoprire che per lui ha valore un servizio/prodotto diverso da quello che io ho pensato, magari anche più vantaggioso per me.

Inoltre l’ascolto serve a farlo rilassare ed essere più gentile e accomodante, più disposto ad ascoltare le mie necessità o limiti.

  • Sincerità

Fondamentale in tutti i rapporti. Se racconto fandonie, millanto poteri inesistenti, dichiaro di essere perfetto, posso solo illudere e successivamente deludere senza possibilità di ricucire la ferita.

Anche raccontare qualche difetto o debolezza della mia azienda è un modo per rendere “umano” il rapporto, e far crescere la fiducia reciproca; se io ho dei difetti, lui potrebbe ammettere i suoi, punto di partenza per concordare un lavoro costruttivo comune.
(Ma come potrebbe un macho ammettere una debolezza?)

Ricordate, le leggi di Murphy sono sempre in agguato… per quanto sia nascosta una pecca, il cliente la scoprirà.

  • Collaborazione

Ascolto reciproco, conquista di fiducia, predispongono favorevolmente alla collaborazione: trovare spunti di lavoro comuni, capire gli obiettivi di ciascuna parte e come agire per raggiungerli.

L’altro non è più un “cliente” ma un “partner” che collabora con me: non arruffiamo le penne, non tiriamo fuori il petto, non facciamo appello al codicino del contratto, ma troviamo mezzi e strumenti per costruire insieme.

Ciò ha ancora più importanza per aziende che vivono nel digitale o che si affacciano al web come strumento di marketing o vendita. Perdere la faccia sul web ha un effetto più dirompente perché può raggiungere in un attimo un pubblico molto vasto e con effetti immediati.

Non è semplice, è faticoso, è lungo, ma dà i suoi frutti.

L’impresa che non c’è

Il circolo virtuoso del lavoro che dà soddisfazione solo in un’impresa che dà soddisfazione.

Ho assistito di recente ad un incontro pubblico sul “fare impresa” a Brescia, invitati alcuni relatori di diversa estrazione ai vertici di imprese/istituzioni pubbliche e private. Hanno parlato di Brescia come di una città in cui si vive bene, in cui la storia istituzionale ha investito parecchio nel dare infrastrutture e supporti per lo sviluppo della città, di cui recente fase la metropolitana.
Uno degli interventi della serata ha dato il definitivo slancio ad alcune riflessioni che da tempo in me stavano cercando l'”uscita”.

Il relatore, presidente di una grande azienda italiane, bresciana, ha relazionato sull’attività dell’azienda che conduce, dandone un’ottima immagine, come attenta ed impegnata alle esigenze sia dell’utente, cui necessariamente bisogna dare servizi di alto livello, sia ai soci con progetti che si prevede portino utili e soddisfazione, con uno sguardo al futuro, con una dirigenza che “alza lo sguardo dalla propria scrivania” per guardare lontano al proprio futuro e strutturare le proprie risorse al meglio per raggiungere quel progetto immaginato e desiderato. Bravo. Un’ottimo spot, senz’altro.

Ma anche un’ottima idea d’impresa, quella in cui un insieme complesso ed articolato, come un corpo, che nel suo insieme funziona, si muove, raggiunge obiettivi, fisici e mentali, cresce e si rende forte per l’azione.
Con una testa che organizza e progetta e inventa, ama e si ama, e si prende cura di se’.
In un corpo così le cellule lavorano in maniera equilibrata, producono le energie che servono al raggiungimento di quegli obiettivi, con il minimo spreco possibile, e con soddisfazione per tutti.

Mentre l’imprenditore tratteggiava la bella immagine, io mi chiedevo se in quel colosso di impresa, le singole cellule che lavorano sulle loro piccole scrivanie tutti i giorni, siano così compartecipi del successo del loro contenitore, vicine e felici e soddifatte del proprio quotidiano affanno.

Perché per tutti arriva un momento in cui sorge la fatidica domanda: perché vado a lavorare? Non credo che la risposta sia così difficile, per molti. Chi per la pagnotta, chi per un senso di orgoglio ed importanza, chi per mantenere una moglie esosa, chi ha come obiettivo un lungo viaggio intorno al mondo, chi aspira a posizioni ambiziose. Io molto banalmente, ho la fortuna di lavorare volentieri perché mi da soddisfazione e mi sento utile nel farlo.

O forse non è fortuna, ma esplicita volontà?

Chiunque si impegna e lavora di più e meglio se ha un ritorno in soddisfazione, se le nostre aspirazioni sono più alte e diverse dalla mera, stantìa, noiosa – pagnotta –
Un po’ come per il matrimonio, che diventa una minestra riscaldata, se non c’è la volontà di farlo funzionare e rendere interessante e divertente e sempre nuovo.

Perchè io VOGLIO che il mio lavoro sia fonte di soddisfazione, VOGLIO che la mia idea di impresa si nutra di quella fantasmagorica illusione in cui ogni cellula collabora e condivide lo stesso destino con la testa, e che il lavoro dell’una sia condiviso e sia utile al lavoro dell’altra, e che la soddisfazione dell’una sia condivisa e diventi soddisfazione dell’altra.

Solo così posso ottenerla, quell’impresa che non c’è!

Così ho risposto anche un po’ a quell’altra domanda, semplice ma ben più difficile, che pone Barry Schwartz al termine del suo intervento: “What kind of human nature do you want to help design?”

Furbetti, prego, accomodarsi altrove!

Ci piace lavorare.
Parlo a nome di miei colleghi e di tutti quelli che non si tirano indietro: rispondi al telefono, scrivi l’email, trova soluzioni, ingegnati. Non ci si annoia, e si torna a casa contenti.

Ci piace lavorare insieme.
Siamo soddisfatti quando portiamo a termine una telefonata col sorriso, con una battuta, quando ai DUE capi del telefono ci sono persone che interagiscono e cercano di capirsi.

Ci piace che ci cerchino per nome.
Anche se i numeri aumentano ed è sempre più difficile  🙂  , da’ soddisfazione ricordare i nomi e sapere già di che cosa c’è bisogno.

Ci piace lavorare in modo sereno, con reciproca fiducia e stima, collaborando. Basta poco.

Non ci piacciono i furbetti, a tutti i livelli.

Il furbetto succhia le energie buone del nostro lavoro, come un parassita.
Il furbetto non porta crescita, solo gratuite perdite di tempo.

Il nostro tempo, vorremmo impiegarlo per costruire qualcosa