L’impresa che non c’è

Il circolo virtuoso del lavoro che dà soddisfazione solo in un’impresa che dà soddisfazione.

Ho assistito di recente ad un incontro pubblico sul “fare impresa” a Brescia, invitati alcuni relatori di diversa estrazione ai vertici di imprese/istituzioni pubbliche e private. Hanno parlato di Brescia come di una città in cui si vive bene, in cui la storia istituzionale ha investito parecchio nel dare infrastrutture e supporti per lo sviluppo della città, di cui recente fase la metropolitana.
Uno degli interventi della serata ha dato il definitivo slancio ad alcune riflessioni che da tempo in me stavano cercando l'”uscita”.

Il relatore, presidente di una grande azienda italiane, bresciana, ha relazionato sull’attività dell’azienda che conduce, dandone un’ottima immagine, come attenta ed impegnata alle esigenze sia dell’utente, cui necessariamente bisogna dare servizi di alto livello, sia ai soci con progetti che si prevede portino utili e soddisfazione, con uno sguardo al futuro, con una dirigenza che “alza lo sguardo dalla propria scrivania” per guardare lontano al proprio futuro e strutturare le proprie risorse al meglio per raggiungere quel progetto immaginato e desiderato. Bravo. Un’ottimo spot, senz’altro.

Ma anche un’ottima idea d’impresa, quella in cui un insieme complesso ed articolato, come un corpo, che nel suo insieme funziona, si muove, raggiunge obiettivi, fisici e mentali, cresce e si rende forte per l’azione.
Con una testa che organizza e progetta e inventa, ama e si ama, e si prende cura di se’.
In un corpo così le cellule lavorano in maniera equilibrata, producono le energie che servono al raggiungimento di quegli obiettivi, con il minimo spreco possibile, e con soddisfazione per tutti.

Mentre l’imprenditore tratteggiava la bella immagine, io mi chiedevo se in quel colosso di impresa, le singole cellule che lavorano sulle loro piccole scrivanie tutti i giorni, siano così compartecipi del successo del loro contenitore, vicine e felici e soddifatte del proprio quotidiano affanno.

Perché per tutti arriva un momento in cui sorge la fatidica domanda: perché vado a lavorare? Non credo che la risposta sia così difficile, per molti. Chi per la pagnotta, chi per un senso di orgoglio ed importanza, chi per mantenere una moglie esosa, chi ha come obiettivo un lungo viaggio intorno al mondo, chi aspira a posizioni ambiziose. Io molto banalmente, ho la fortuna di lavorare volentieri perché mi da soddisfazione e mi sento utile nel farlo.

O forse non è fortuna, ma esplicita volontà?

Chiunque si impegna e lavora di più e meglio se ha un ritorno in soddisfazione, se le nostre aspirazioni sono più alte e diverse dalla mera, stantìa, noiosa – pagnotta –
Un po’ come per il matrimonio, che diventa una minestra riscaldata, se non c’è la volontà di farlo funzionare e rendere interessante e divertente e sempre nuovo.

Perchè io VOGLIO che il mio lavoro sia fonte di soddisfazione, VOGLIO che la mia idea di impresa si nutra di quella fantasmagorica illusione in cui ogni cellula collabora e condivide lo stesso destino con la testa, e che il lavoro dell’una sia condiviso e sia utile al lavoro dell’altra, e che la soddisfazione dell’una sia condivisa e diventi soddisfazione dell’altra.

Solo così posso ottenerla, quell’impresa che non c’è!

Così ho risposto anche un po’ a quell’altra domanda, semplice ma ben più difficile, che pone Barry Schwartz al termine del suo intervento: “What kind of human nature do you want to help design?”